Cosa è l’omofobia?
Omofobia: la paura irrazionale, il pregiudizio o l’odio violento nei confronti delle persone omosessuali o le azioni che da esso derivano o che ad esso sono riconducibili. Per omofobia si può intendere anche la paura dell’omosessualità, ed in particolare la paura di venire considerati omosessuali, ed i conseguenti comportamenti volti ad evitare gli omosessuali e le situazioni considerate associate ad essi. Ignoranza, insensibilità, stereotipi, modo di pensare, pregiudizi, discriminazioni, e altri attributi negativi possono essere raggruppati sotto il concetto di omofobia.
Cos’è l’orientamento sessuale?
L’orientamento sessuale è una espressione che si usa per descrivere l’attrazione sessuale, emotiva e sentimentale di qualcuno nei confronti di qualcun altro. A seconda dell’orientamento sessuale gli individui possono essere classificati in eterosessuali, bisessuali o omosessuali.
Si può cambiare il proprio orientamento sessuale?
Non esistono prove scientifiche che supportino l’efficacia di un trattamento mirato a cambiare l’orientamento sessuale. Sono ben noti invece i rischi potenziali di tale trattamento: tra gli altri, depressione, ansia, comportamento auto-distruttivo. Un simile tipo di terapia parte, infatti, dalla tesi che l’omosessualità sia uno stato non desiderabile (o addirittura una malattia), rinforzando così il senso di odio per se stesso che il paziente omosessuale può già provare.
Un giusto approccio terapeutico deve invece aiutare il paziente omosessuale ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale e a integrare pienamente tale orientamento nella propria personalità, sviluppando una positiva immagine di sé e superando i pregiudizi anti-gay instillati in lui dalla società.
Cos’è l’omosessualità?
È uno degli esiti possibili di un normale sviluppo dell’affettività di un persona. Esso non attiene solamente alla sessualità ma alla possibilità di creare legami amorosi globali cioè emozionali, affettivi, sensuali, progettuali e di rappresentazione di se stessi. Omosessualità è sentire di realizzare se stessi dentro una relazione con una persona del proprio genere, non si nasce ma si diventa lesbica o gay come normale possibilità dello sviluppo, non si sceglie di essere eterosessuale o omosessuale, ma si sceglie sempre come esserlo.
Cos’è l’affettività omosessuale?
L’affettività è il motore e l’obiettivo del legame amoroso. Gli affetti rivolti verso una persona del proprio genere fanno parte della capacità della specie umana di costruire relazioni in molteplici direzioni. L’affettività omosessuale corrisponde dunque a una possibilità normale dello sviluppo umano.
l fatto che in molte culture umane (ma non in tutte) il sistema sociale, che circonda i bambini e le bambine, selezioni e permetta solamente l’affettività eterosessuale, negando e delegittimando quella omosessuale, attiene alla omofobia sociale e non alla natura umana.
Perché le famiglie accettano con difficoltà il fatto che uno proprio componente sia gay?
Le reazioni possono essere molto diverse da famiglia a famiglia. In genere all’inizio i genitori sono preoccupati per il benessere del figlio, in quanto membro di una minoranza fortemente stigmatizzata. Inoltre possono avere paura di diventare a loro volta oggetto di quello stesso stigma e tendono perciò a nascondere l’omosessualità del figlio ad amici e parenti.
I familiari spesso condividono le attribuzioni negative del proprio tessuto sociale, da cui dipendono. Essi sono indotti alla vergogna proprio perché sono colpevolizzati. Pensano ad un proprio fallimento genitoriale o parentale. Solo dopo un lungo iter di elaborazione i familiari comprendono che l’omosessualità di un loro caro è la sua personale forma di relazionalità , testimonianza di una sua capacità di amare. Tale capacità è il più evidente segno di successo genitoriale e familiare, ben lontano da malattia, handicap, insufficienza, ecc, (cioè dalle attribuzioni omofobe).
Esempi di omofobia in ambito scientifico
La scienza influenza il pensiero comune. Tuttavia è vero anche il contrario, dunque l’omofobia sociale influenza i propri membri dediti all’attività e alla ricerca scientifica. Se la metafora omofoba che spiega l’omosessualità è quella della devianza e dell’alterazione, ecco che si cercheranno modelli di devianza o alterazione genetica, cerebrale, mentale, fino a spirituale e sociale. Non dette ne pensate, le metafore occupano il livello più profondo delle percezioni ed emozioni. Le metafore sono le “tesi di fondo”, il nucleo delle credenze individuali, condizionate socialmente, con cui le persone si rapportano l’un l’altro o con una nuova esperienza. Le evidenze scientifiche attuali in ogni campo citato, testimoniano invece che quanto più si cerca l’alterazione tanto più ci si imbatte nella normalità. L’eterosessualità (sarebbe meglio dire le eterosessualità) non è lo sviluppo scontato di un processo naturale, ma l’esito di una tra le molte costruzioni possibili, quello solo maggiormente organizzato ed incentivato dalla cultura dominante.
Esempi subdoli di omofobia interiorizzata
1) Alcuni omosessuali (soprattutto maschi) vedono come verità ed obiettivo primario della loro natura l’esercizio della sessualità. Assumendo la sola sessualità come parametro di identità essa va consumata sempre e dovunque, al di là di ogni considerazione. Diventa stile di vita, bandiera della rappresentazione del se. Ma tale libertà sessuale è solo una faccia della stessa medaglia omofoba che vede i gay condannati alla promiscuità e alla schiavitù dell’atto sessuale, costretti a non poter costruire nulla o incapaci di farlo. Alcuni omosessuali hanno appreso in tal modo a non pensare a se stessi come a persone intere, con desideri complessi e tutti legittimi. È meno difficile concentrarsi sul piacere fuggevole che sullo scardinare il sistema psicologico, culturale, e politico dell’eterosessualita, per trovarsi un proprio posto. È solo storia di pochi decenni la vera liberazione omosessuale che si percepisce attraverso il senso di legittima appartenenza ad ogni livello del sistema sociale e personale: dal mondo del lavoro a quello politico, dalle forze armate alle unioni matrimoniali, alle adozioni.
2) avversione per la diversità, per l’eccentricità, per l’effemminatezza maschile o per la “virilizzazione” femminile. Spesso dietro la legittimità dei gusti, si nasconde un certo disgusto per la diversità percepita come inferiorità, come confine varcato con orrore, oltrepassamento di barriere corporee, che prima di essere valutate vengono rigettate. Il superamento di tale rigidità è un buon segno di omofobia che viene ridimensionata.
3) fatalismo: è un insieme di idee, esplicite o meno che si applica a se stessi, in quanto gay o lesbica, per cui si ha un’intima certezza che non si è destinati ad un affetto duraturo, una famiglia, una serenità relazionale. La conseguenza è il disincanto, il sospetto, la rinuncia, la mancanza di fiducia nelle capacità relazionali dell’altro. Il fatalismo è frutto dell’oppressione antiomosessuale, capace di intaccare i presupposti fondamentali che conducono alla ricerca di una propria serenità affettiva. Ci si rassegna al determinismo omofobico e si avvalla una costruzione pessimistica della propria vita
Come un gay o una lesbica possono contrastare la propria omofobia interiorizzata?
Innanzitutto comprendendo la legittimità del proprio desiderio di realizzazione affettiva con una persona del proprio sesso; un compito liberatorio da affrontare prima di tutto dentro se stessi.
Tale liberazione si realizza inoltre contro le immagini distorte che gli omosessuali stessi, vittime d’omofobia, si attribuiscono in seguito ad un processo di interiorizzazione delle credenze sociali. Bisogna dunque diventare consapevoli con quanti attributi squalificanti e degradanti ci si è identificati e successivamente sostituirli con attributi realistici, e modelli positivi e di legittimità sociale. Gay e lesbiche oggi possono esercitare diritti e assumersi responsabilità in ogni contesto. Terreno di battaglia e fonte di identità oggi non è più la camera da letto ma ogni luogo interpersonale e sociale dove si concretizza il diritto ad una esistenza piena e serena insieme agli altri.
Infine l’omofobia interiorizzata sarà superata quando la persona sentirà che la propria particolare capacità d’amare è una sua risorsa. Per se stessa, essa è bene e consente di aprirsi con fiducia. In questo modo si sentirà che la propria omosessualità come ogni altra forma di relazionalità è uno degli strumenti per costruire percorsi di felicità.
Quando è assolutamente necessario affrontare la propria omofobia interiorizzata?
Ogni persona che intenda lavorare con utenti GLBT dovrebbe affrontare inanzitutto la propria omofobia, e cioè esplorare la propria parte omosessuale onde evitare la paura e la confusione che potrebbero insorgere di fronte un probabile o dichiarato utente GLBT.
Se si è gay o lesbiche è bene che si sappia che occuparsi di un’utenza GLBT mobiliterà un personale processo di coming out e ci si confronterà con i propri stereotipi interiorizzati e con la propria omofobia. In ogni caso ci si confronterà con le problematiche inerenti la lunga frustrazione derivante dalla mancanza di relazioni intime accettate e visibili, la segretezza, la vergogna, la paura di aprirsi. Se non si ha confidenza con queste tematiche possono insorgere problemi di relazione con l’utenza, invischiamenti, difficoltà di comprensione, ostacoli nella comunicazione. È consigliabile a tutti porsi l’obiettivo di esplorare a fondo i propri vissuti presenti e la propria storia personale, la supervisione che farete con me avrà anche questo scopo.
Cosa è il coming out?
Letteralmente: “venire fuori”, Con questo termine inglese si descrive il momento in cui un individuo identifica se stesso apertamente come omosessuale. Il coming out non è un processo univoco, ma dura nel tempo e varia da persona a persona. Ci sono individui che hanno fatto il coming out al lavoro, ma non con i propri familiari, altri che lo hanno fatto con i propri amici più intimi, altri ancora che sono apertamente gay. Ovviamente è un processo molto importante, che coinvolge non solo l’individuo omosessuale, ma anche le persone che gli sono intorno, offrendo a tutti un’opportunità di grande crescita emotiva.
Il coming out è prima di tutto il prendere coscienza di se stessi, un riconoscimento emotivo di sé, un identificare i propri bisogni e cercare di soddisfarli, successivamente è il confrontarsi con gli altri e con l’ambiente. Esistono diversi modelli di coming out, ne abbiamo preso uno (Coleman) in grado di orientare il counselor quando ascolta un cliente, al fine di individuarne sommariamente il momento evolutivo.
Pre-coming out: l’identità di genere è gia formata a circa 3 anni, i bambini apprendono i valori etici delle loro famiglie e del gruppo sociale. Nella maggior parte dei casi i bambini imparano che l’omosessualità è sbagliata. Di conseguenza i bambini che scoprono le proprie inclinazioni omosessuali cominciano a sperimentare vissuti di solitudine, diversità, confusione. I sentimenti omosessuali sentiti anche sgradevoli vengono rigettati attraverso vere e proprie difese psicologiche: il diniego, la repressione, la razionalizzazione, ecc. queste difese, se rigide, possono avere effetti disastrosi: ogni volta che un individuo nega l’esistenza dei propri sentimenti o evita di esprimerli si procura una ferita. In definitiva nel pre-coming out le persone non sono spesso nemmeno consapevoli dei loro sentimenti omosessuali, non sanno definire quel che non va o, se hanno consapevolezza di sé, questa è accompagnata da bassa autostima, vergogna, senso d’indegnità o sentita come una parte scissa della loro personalità.
Coming out: l’individuo riconosce i propri sentimenti omosessuali. Pur non avendo una chiara comprensione di ciò che essi significano, ne riconoscendosi pienamente negli stereotipi o immagini sociali dell’omosessualità, egli riconosce come propri emozioni, sentimenti, bisogni, fantasie e le collega a se stesso accettandole. Successivamente si sente il bisogno di dirlo ad altri significativi. Questo è un momento molto delicato, in cui possono sperimentarsi sia la gioia dell’accettazione che la ferita del rifiuto degli altri.
L’esplorazione: questa fase è caratterizzata dall’esplorazione della nuova identità sessuale. Simile al periodo dell’adolescenza, rappresenta un primo grande periodo di esperienze sessuali e sociali. Spesso queste persone non hanno avuto queste esperienze quando avrebbero dovuto averle; ciò permette di comprendere i loro vissuti, che sono quelli del collegare fantasie e esperienze reali, stereotipi e reali conoscenze.
Stadio della prima relazione: in questa fase il bisogno di intimità e approfondimento prende il posto del desiderio di fare quante più esperienze possibili. Vi è la spinta ad integrare attrazione fisica ed emotiva. Il desiderio di far funzionare una relazione gay e lesbica possono qui scontrarsi con un modello interno che è fondamentalmente eterosessuale, portando a diversi problemi ed incomprensioni.
L’integrazione dell’identità: il cammino dell’identità passa attraverso difficoltà sia interiori che esteriori che rendono dura la sua marcia verso l’autoriconoscimento e la maturità. In questo stadio l’individuo incorpora la propria immagine pubblica e privata dentro la propria immagine di sé. Si scoprono nuovi sentimenti e nuove possibilità di descriversi, di comunicare. Sarà possibile esplorare nuove forme di vita sociale e di intimità relazionale. Probabilmente qui si potranno da un lato consumare inevitabili separazioni, dall’altro aprirsi ad amici, colleghi e familiari. La persona sperimenterà un senso dinamico di integrità e di unità di sé stesso nel mondo.
L’omosessualità raccontata
“Modidi” sesso e salute nell’Italia di oggi
Grazie all’Arcigay, si è conclusa “Modidi”, la prima grande ricerca sulla salute delle persone lesbiche, omosessuali e bisessuali realizzata in Italia (di cui Babilonia è stata grande sostenitrice). Grazie ad essa possiamo disporre di dati aggiornati su stato di salute, comportamenti sessuali, fattori di rischio e modalità di accesso alle risorse di prevenzione; queste informazioni saranno una fonte inesauribile di stimolo per chi vuole operare con e per la nostra Comunità.
Riportiamo qui solo alcuni risultati utili ad una riflessione comune, per chi volesse leggere per esteso i risultati consulti il sito http://www.modidi.net.
Donne
Il processo di autodefinizione come “lesbica” sembra possibile solo a chi ha superato i 30 anni; è dunque connesso al percorso di costruzione dell’identità personale e sociale. Se più giovani tendono ad non utilizzare definizioni, non è da escludere che la parola “lesbica”, spesso utilizzata in senso denigratorio e, perduta la sua connotazione “politica”, possa sembrare in antitesi con un’immagine positiva di sé. Ciononostante, tutte negli ultimi 12 mesi hanno fatto sesso prevalentemente con altre donne. Un comportamento congruente che prescinde dalle definizioni.
Stili di vita:
Metà del campione si dichiara disinteressata all’uso di sostanze, l’altra meta invece, se giovane, privilegia la marijuana, se adulta, psicofarmaci e cocaina. La percentuale relativa alla frequenza con cui si fa sesso sotto l’effetto di sostanze è maggiore rispetto agli uomini. Anche per l’alcool ed il fumo, i comportamenti di abuso sono piuttosto frequenti. Fino ad oggi sono rarissime le campagne di informazione e prevenzione indirizzate al target lesbico.
A tale proposito, il 78% delle stesse intervistate dichiarano che è difficile trovare informazioni chiare sui comportamenti sessuali a rischio tra donne.
Salvo il Meridione, le lesbiche italiane hanno percentuali di controlli sanitari perfino superiori alla media nazionale.
Visibilità
Ad esclusione degli amici, dichiarare il proprio orientamento sessuale (soprattutto al Sud) resta una difficoltà che diminuisce solo con l’età. Inoltre circa il 20% delle intervistate, dal Nord al Sud, dichiara di aver ricevuto insulti o molestie a causa del proprio orientamento sessuale. Una percentuale alta, tanto più che va sommata ad una discriminazione della donna, in quanto tale, non di certo scomparsa. Questo è uno dei motivi per cui la comunità omosessuale si aspetta una legge chiaramente antidiscriminatoria verso l’orientamento sessuale che renda pari tutti i cittadini di questo Paese.
Relazione con i servizi sociosanitari
Più di un terzo teme, quando si rivolge a medici o infermieri, di ricevere un trattamento peggiore a causa del proprio orientamento sessuale. Poco più della metà, invece, vive con serenità il rapporto con i servizi.
Le cose non vanno meglio nemmeno nei rapporti con il proprio medico o ginecologo. Inoltre, coloro che si sono svelate, testimoniano che il medico non ha usato tale informazione, come risorsa relazionale importante. Questa situazione spiega perché nonostante il 70% dichiari molto importante la conoscenza dell’orientamento sessuale da parte del ginecologo, solo il 24% si dichiara.
Nel rapporto con i colleghi psicologi: risulta che nel 21,3% dei casi, essi non sono a conoscenza dell’orientamento sessuale della loro paziente (come può instaurarsi una relazione d’aiuto se si disconosce questo fondamentale aspetto della persona?). Sebbene il 70% dichiari che il proprio psicologo ha assunto un atteggiamento positivo verso l’orientamento omosessuale, rimane un 11% che dichiara una reazione negativa e un 25% che non sa. Insomma c’è molto da fare anche all’interno della mia categoria professionale.
UOMINI
“Che termine usi di solito per definirti”? Hanno chiesto i ricercatori di Modidi nel loro questionario in giro per l’Italia, scoprendo che non c’è sempre congruenza tra il modo in cui le persone si definiscono e la propria attività sessuale. Anche se il 60 % si definisce “gay”, sono più dell’80% quelli che dichiarano di avere rapporti solo con altri uomini. È necessario, pertanto, non basarsi solo sulle etichette identitarie per comprendere appieno l’esperienza dell’individuo.
Comportamenti rischiosi
Quasi un quarto degli intervistati (23%) dichiara di aver avuto rapporti sessuali a rischio nell’ultimo anno. L’attenzione per la prevenzione è ancora troppo bassa, soprattutto tra gli under 25. Un comportamento preoccupante, in aumento al Sud, che forse non è scollegato alla ricomparsa della sifilide nella scena delle malattie in aumento.
Stili di vita
I dati emersi sull’uso di sostanze mostrano un consumo più frequente rispetto alla popolazione generale. Nonostante questa realtà sia da tempo sotto gli occhi di tutti, non ci sono, nella scena gay, campagne sull’uso consapevole di sostanze. Questo non è certo indice di spirito libertario ma solo del fatto che per il sistema i gay non esistono. Dai dati si osserva inoltre che l’uso di marijuana, presente in uno su quattro, diminuisce col l’avanzare dell’età ma a favore dell’uso di psicofarmaci (tranquillanti, antidepressivi, sonniferi, ansiolitici). Si registra, inoltre, un picco nella fascia 26-30 per cocaina ed ecstasy.
L’urgenza di una legge antidiscriminatoria è confermata anche dal dato maschile relativo a insulti o molestie subite a causa del proprio orientamento sessuale, frequente sotto i 25 anni e maggiore nel Meridione.
Relazione con i servizi sociosanitari
“Temo di ricevere un trattamento peggiore a causa del mio orientamento sessuale, quando mi rivolgo a medici o infermieri”. È questa la risposta del 40% dei gay soprattutto se giovani e del Sud; il 77,7% non è mai andato in un ambulatorio sessuologico o reparto malattie infettive.
Riguardo la visibilità con il medico di base, i gay si comportano più o meno come le lesbiche anche se si nascondono di più al Sud e tra i giovani (80% degli under 25 non ha mai rivelato di essere gay).
Stessa tendenza anche nel rapporto con lo psicologo
Infine, ancora un terzo dei gay italiani trova difficile reperire informazioni chiare sui comportamenti sessuali a rischio tra uomini: sembra essere la prima chiara conseguenza dell’aver tolto il target omosessuale dalle campagne di informazione e prevenzione come ha fatto il governo in questi anni.
1- Padri gay
Già nella ricerca “Modidi”, viene fuori che un gay e una lesbica su 5 oltre i 40 anni hanno almeno un figlio. Si tratta di almeno centomila bambini o ragazzi italiani. Non il futuro, ma già il presente di questo Paese. L’abolizione del pregiudizio sociale verso di loro e i loro genitori è un obbiettivo primario per la società intera.
In recenti studi, anche italiani, si sono potuti indagare i vissuti dei padri omosessuali e sono venute fuori diverse indicazioni interessanti.
- Fare coppia con un partner del proprio sesso non esclude il desiderio di avere un figlio, anche se poi non è facile coniugare questi desideri e, in certi casi, la realtà con la propria identità individuale e sociale.
- Per molti gay diventati padre in seguito a relazioni matrimoniali eterosessuali, l’incontro con la propria omosessualità determina una vera e propria crisi di identità, il cui superamento comporta un faticoso percorso. Spesso il primo passo è quello di interrompere il matrimonio, successivamente un percorso di ristrutturazione del proprio orientamento sessuale che si corona spesso con successo.
- Per alcuni invece cambiare il proprio status non è possibile e non realizzano un vero e proprio outing, tuttavia essi possono raggiungere pian piano un equilibrio soddisfacente anche se più sul piano cognitivo che quello affettivo.
- Per tutti la paternità rimane una parte fondamentale della loro identità. Per essi andare incontro ai bisogni emotivi dei figli è fondamentale. Il loro senso di responsabilità è inoltre rinforzato dalla consapevolezza delle conseguenze sociali che il coming out potrebbe avere sulla vita dei loro figli.
- È proprio questa la preoccupazione principale di questi padri: trovare i modi e i tempi più adatti per parlare ai figli del loro orientamento senza che ciò provochi in loro sofferenza o li danneggi in qualche modo. In tali preoccupazioni trovano posto timori realistici ma anche altri derivanti dalla propria omofobia interiorizzata.
- Un dato interessante che viene fuori (che può essere anche consigliato in una consulenza) è che i padri gay cercano già durante il matrimonio, di preparare ad un eventuale coming out, educando i propri figli al rispetto per le differenze, all’apertura mentale e facendoli pian piano prendere coscienza dell’esistenza di diversità sessuali.
- Alcuni studiosi, soprattutto nord europei e americani sostengono che i figli finiscono per accettare senza grossi problemi l’omosessualità paterna. Ciò che conta è la qualità della relazione, se essa si basa su buona comunicazione ed affetto, ad un primo momento di confusione o crisi farà seguito la comprensione del figlio per la condizione del genitore.
- Fattore importante è anche l’età: i figli più piccoli sembrano avere maggiore facilità a comprendere rispetto a quelli più grandi. Probabilmente più si va avanti con l’età e maggiormente si tende ad interiorizzare i pregiudizi sociali.
- I figli piccoli in generale soffrono più della separazione dei genitori che della rivelazione dell’omosessualità paterna. Fino a 7/10 anni i bambini non hanno ben chiaro il senso del pregiudizio sociale sull’omosessualità.
- Le difficoltà paterne nel vivere serenamente la propria omosessualità derivano tutte da fattori come l’educazione ricevuta, dagli apprendimenti di modi e stereotipi sociali, dalla condivisione inconsapevole di elementi omofobici. È spesso con l’intervento psicologico che può essere affrontata tale difficoltà ma è di grande aiuto anche il supporto sociale.
- Una cosa è chiara: l’inclinazione omosessuale non cancella il desiderio di paternità, ne la capacità di svolgere il ruolo paterno sia nei confronti dei figli avuti nell’ambito di una relazione eterosessuale, e indipendentemente dal destino di questa, sia nei confronti di quelli che si vorrebbero avere, o adottare, laddove le leggi lo consentano.