In ottica Control Mastery Theory, con il termine “coaching behavior” si fa riferimento a tutte quelle comunicazioni, atteggiamenti e comportamentiche i pazienti mettono in atto nel corso della terapia per istruire, guidare e aiutare il clinico a comprendere gli elementi centrali del loro piano inconscio, ossia quali sono i loro obiettivi, cosa gli impedisce di raggiungerli (credenze patogene e sensi di colpa) e come vogliono disconfermare le credenze patogene che li ostacolano (test). Il loro scopo è favorire attivamente la costruzione di una relazione in cui si sentano al sicuro e possano essere aiutati.
I comportamenti e le comunicazioni di coaching possono essere diretti, chiari ed espliciti, oppure indiretti, impliciti e allusivi, sino a diventare paradossali. Ma da cosa dipende il grado di immediatezza e chiarezza delle comunicazioni e dei comportamenti di coaching?
Quando siamo consapevoli dei sentimenti, pensieri e motivazioni che sottendono i nostri comportamenti, riusciamo ad esprimerli in modo chiaro e diretto, senza fare giri di parole, ma per farlo dobbiamo sentirci al sicuro.
Ciò significa che uno stesso paziente può comunicare in modo diretto alcuni aspetti del suo piano, ma suggerirci in modo implicito e indiretto quelli che percepisce come più minacciosi per sé o per la relazione con noi. Un paziente può dire in modo esplicito ciò di cui ha bisogno solo se è abbastanza certo del fatto che il clinico lo capirà e risponderà in modo adeguato alle sue comunicazioni, ma può essere vero anche l’opposto.
I pazienti possono fare coaching in modo più vigoroso, chiaro e diretto anche quando hanno bisogno di acquisire maggior sicurezza nella relazione col clinico, come se si dicessero: “Visto che non mi stai capendo, te lo dico con la massima chiarezza!“.
Anche se le attività di coaching possono presentarsi in qualsiasi momento, possiamo identificare tre momenti della terapia in cui tendono a intensificarsi: all’inizio della terapia, prima, durante e dopo un test, e quando si desidera un cambiamento della relazione terapeutica.
All’inizio della terapia, i pazienti fanno coaching per preparare il clinico a lavorare con loro, per comunicargli il loro piano inconscio. Alcune ricerche empiriche (O’Connor et al. 1994) hanno dimostrato che, nelle prime sedute di una psicoterapia, i pazienti sono più consapevoli dei propri problemi e hanno più insight di quello che mostrano in seguito. L’attività di coaching si intensifica anche quando i pazienti si preparano a testare il terapeuta, durante un test e dopo la sua risoluzione. Questo perché i test rappresentano momenti delicati per i pazienti, quelli in cui mettono alla prova le proprie credenze patogene nella speranza che il terapeuta le disconfermi. Da questo punto di vista, prima di un test i pazienti fanno coaching per aumentare le probabilità che il clinico superi il test. Durante il suo svolgimento, lo fanno per incoraggiare quegli interventi che sono compatibili col piano e per indicare al terapeuta quando sta sbagliando, per fargli capire che deve modificare i suoi atteggiamenti, comportamenti e comunicazioni perché rischia di confermare le loro credenze patogene. In alternativa, dopo un test i pazienti possono comunicare al terapeuta che lo hanno superato, informandolo sull’utilità dei suoi interventi e incoraggiandolo a continuare così, o per fargli capire che è sulla strada giusta. Infine, l’attività di coaching può intensificarsi quando un paziente ha bisogno che la relazione terapeutica cambi. Capita spesso, per esempio, che i pazienti, dopo aver disconfermato una credenza patogena e raggiunto un loro obiettivo, vogliano iniziare a lavorare per raggiungerne altri e, in alcuni casi, per farlo hanno bisogno che il terapeuta modifichi i suoi atteggiamenti, comportamenti e comunicazioni. Il coaching può essere utilizzato per aiutarlo a far questo.
In sintesi, i pazienti fanno da coach ai loro clinici per aiutarli a comprendere quali siano i loro obiettivi e le loro credenze, in che modo vogliano essere aiutati, quale atteggiamento terapeutico gli sia più utile e cosa abbiano bisogno di comprendere della propria vita mentale e della propria storia. Possono farlo sempre, ma lo fanno in modo particolare all’inizio del trattamento, prima, durante e dopo test importanti e quando hanno bisogno che il clinico modifichi il suo approccio.